Friday, February 26, 2010

Google e i nazisti dell'Illinois

I miei due centesimi sulla vicenda della condanna ai manager di Google. Ovviamente, nessuno discute della responsabilità (e della coglionaggine) di chi ha scherzato e picchiato un ragazzo, perdipiù disabile. Non mi pare sia stato contestato da nessuno e la legge ha già condannato a suo tempo quei poveretti.

Come è stato ampiamente scritto, una prima questione che fa attrito e fa discutere è la condanna anche di coloro che mettono a disposizione lo spazio per pubblicare quei filmati, oltre a milioni di altri inutili o fantastici.

Ulteriore tema, collegato in parte a questo, è quello della libertà d’espressione. Se i tribunali iniziano a decidere quel che si può pubblicare on line, in effetti, sembra che la censura possa comparire da un momento all’altro.

Io non ho risposte, piuttosto vorrei notare un tema che non mi sembra di aver visto citato in questi giorni. La libertà d’espressione degli individui è un diritto fondamentale alla base delle democrazie occidentali. Uno strumento con il quale si garantisce la possibilità a tutti di dire e soprattutto di critica il potere costituito. E tuttavia è uno strumento che ha varie declinazioni. Non a tutte le latitudini si possono dire e scrivere le stesse cose. Io posso scrivere e pubblicare un certo articolo negli Stati Uniti e non posso fare la stessa cosa in Europa. Negli Usa è pieno di nazisti dell’Illinois che possono tranquillamente circolare, non lo stesso può accadere in Italia e men che meno in Germania, dove è vietato anche fotocopiare materiale antisemita.

La libertà d’espressione è profondamente radicata nella storia e nella cultura dei singoli Stati-Nazione. È da lì che viene quello che possiamo dire e quello che non possiamo. Ogni paese ha dei legittimi tabù storicamente fondati. Discutibili ma fondati sulla storia di quel paese.

La questione con la rete è che non è in un paese. Non ha paese, e per questo motivo le vecchie leggi s’inceppano. Il meccanismo della libertà d’espressione così come lo conosciamo funziona se esistono dei confini culturali, storici e anche geografici ben definiti. Altrimenti si riempie di sabbia ogni momento. E si arriva a situazioni ridicole come quella di qualche mese fa, quando Repubblica.it per tutelarsi linkava foto delle feste nella villa sarda di Berlusconi prendendole dal sito del quotidiano spagnolo El Pais, foto a loro volta custodite in Colombia.

Thursday, February 25, 2010

Oi phantòccioi

No, niente, è solo che volevo dire che l'argomento retorico del fantoccio lo conoscevano già un duemila anni fa (anzi di più) e non aveva un nome inglese. Per dire, Aristotele ricostruì nella Metafisica in maniera quanto meno fantasiosa le vicende di quelli che i nostri manuali considerano suoi predecessori (proprio perché li mette lui alle sue spalle). E i suoi successori glielo rinfacciarono eccome.

Tuesday, February 23, 2010

Il cervello che pensa e la cultura non sa

Provate per esempio a pensare a vostra madre, poi a voi stessi, infine a un politico famoso. Se siete nati a Milano o New York, il vostro cervello si attiverà in maniera diversa per ognuno di questi pensieri. Se invece vivete a Tokyo o Delhi, tenderete a unire le tre cose, mettendo insieme la percezione dell´Io, della famiglia e della società.
Certo, la colpa non è di Anais Ginori, la giornalista che oggi su Repubblica presenta l’ennesima grande frontiera della nuova koinè: le neuroscienze. La quantità di incongruenze, paradossi, difficoltà, che escono fuori a leggere l’articolo meriterebbero almeno di sorvegliare le parole. Si racconta dell’ultimo filone che avrebbe preso lo studio del cervello, ossia studiare quanto le differenze geografiche e culturali determinano il nostro modo di pensare. Messa così sembrerebbe un’apertura. Vedi, si potrebbe dire, si sono aperti a una qualche forma di relatività, i norvegesi e gli aborigeni australiani magari pensano in maniera diversa. E la giornalista lascia intendere questo (certo dice pure che ci sono discussioni, ma se lo scrive Newsweek un qualche interesse ci sarà).

Il gran problema tuttavia è appoggiare quest’intuizione sul legame tra pensiero (che poi qualcuno dovrebbe dire cos'è) e latitudine di provenienza sulle neuroscienze come se queste fossero qualcosa che sta fuori dalla cultura così come è a Manhattan oppure nel mezzo del Borneo.

Come se lì ci fossero le culture, che producono dei modi di pensare così e così (nei boxini, Rep. mette Aristotele e Confucio), e fuori da esse ci sono gli scienziati con i loro strumenti, evidentemente extra-culturali e non frutto di pensiero, che ti fanno vedere le differenze tra culture.

In tutti questi studi, e soprattutto in tutte le sintesi giornalistiche che li raccontano, non sopravviene mai il dubbio che le neuroscienze non stiano da qualche parte fuori, fuori dalle culture. Che anch’esse sono un prodotto di un cervello e dunque di una cultura.

Sarebbe facile discutere affermazioni come «l´individualismo degli occidentali o lo spirito collettivo degli orientali è visibile nei processi cognitivi». Vorrei proprio vedere cosa si vede.
Ma non è solo questo, né i rischi di razzismo che suciterebbero teorie del genere (non mi pare ne siamo stati immuni anche prima di venire a sapere dell’esistenza delle neuroscienze culturali). Piuttosto, quel che andrebbe discusso è l’ingenuità con cui si distinguono le cose che dipendono dalla cultura e quelle che no, che non sono affare della cultura ma che ci dicono proprio come le cose stanno. E questo non può essere affare delle neuroscienze.

Monday, February 15, 2010

I dubbi di Touraine

Secolarismo e laicismo? Hanno molti limiti. Individualismo? Da rivalutare. Femminismo? Non contro gli uomini ma per una autodeterminazione delle donne che passa pure per la pornografia.
Vado a intervistare il grande vecchio della sociologia francese con molti dubbi in testa.

Lo stallo multietnico e Maroni

Il paese è multietnico e questo è un fatto. Malgrado gli esorcismi (da Berlusconi in giù), cinque milioni di stranieri in Italia dicono che il multiculturalismo non è più una scelta.
La questione è che di questi cinque milioni non si sa che farne. Non è chiaro come inserirli nel tessuto sociale autoctono (sinistra) ma neanche come asservirli in una gerarchia pararazzista (destra). La rete per tenere ordinati questi cinque milioni di persone è piena di buchi. Soprattutto mancano le idee su come dovrebbe realizzarsi questa integrazione possibile.

Mancano a sinistra dove si ripete stancamente il mantra di parole svuotate: "differenze", "diversità", "culture", "apertura", "solidarietà", "tolleranza" ecc. sono canzoni da organetto ormai, con nessuna presa sulla realtà né su coloro che dovrebbero ascoltarle.
Nè tantomeno a destra si sa dove mettere le mani. Certo, si sa come raccogliere il consenso nel profondo nord impaurito ad arte, ma non come governare il fenomeno (vedi Milano). (Che poi qual è il fenomeno?)

Per questa ragione fa pensare l'intervista a Maroni sul Corriere. Che ci prova a guardare un dito più in là, sapendo bene che tanto da lì non può muoversi.
"Basta quartieri multietnici" dice. Che in verità che c'è di male, anzi dovrebbe essere la norma in una società multietnica un qualtiere multietnco, ma vabbé.
Basta quartieri multietnici. D'accordo, il problema è che poi viene fuori il quartiere dei cinesi, quello dei marocchini, dei peruviani ecc. E allora siamo da capo a dodici, e ti dicono che ti sei coltivato in casa il terrorista come a Londra, reclusi in ghetti monoculturali (Sen) a sovranità limitata dello Stato.
E allora bisogna distribuirli per la città, ma allora ti arriva la sciura milanese che ha votato l'Umberto e che no, il puzzo di curry per le scale proprio non ce lo vuole.
E allora si rimane così, senza un'idea. Fino alla prossima incazzatura, la prossima vetrina sfasciata, la prossima coltellata.

Monday, February 08, 2010

The View From Your Window

Andrew Sullivan, il celebre blogger Andrew Sullivan, ha tirato fuori un libro dalla sua rubrica (o meglio, dalla rubrica di foto dei lettori inviate da tutto il mondo) “The View From Your Window”. Il libro è qui e lo si può sfogliare per intero. Certo la foto di Roma rende fino a un certo punto. Però, l'impatto nel complesso del volume, vale.

Tuesday, February 02, 2010

DeLillo e il cattivo inizio

«La vera vita non è riducibile a parole scritte o dette. Da nessuno, mai». Sembra che inizi così il nuovo romanzo di Don DeLillo, Point Omega, storia di un rapporto tra un artista e un intellettuale, come racconta Antonio Monda oggi su Repubblica. Ora, qui non si discute del romanzo - ovviamente non lo ho ancora letto - ma dell'incipit. D'accordo, DeLillo è un grandissimo della letteratura contemporanea, d'accordo il Nobel ecc. Ma l'incipit, messo cosi' e' una banalita', peraltro molto discutibile. Quale sarebbe la vita «vera»? dico, dov'è? qual è quella vera di fronte quella presumibilmente falsa? E ancora, una volta identificata questa presunta vita vera, come se ne parla se non appunto attraverso «parole scritte o dette» che tutti quanti in ogni attimo pronunciamo o mettiamo nero su bianco? E poi, quando scriviamo e parliamo, cosa facciamo se non vivere una vita? Vera.

Monday, February 01, 2010

Il romanzo: da prodotto a servizio

Incollo qui le risposte che Francesco Dimitri mi ha dato per un pezzo uscito qualche giorno fa su Nova24. (L'editing è quello che è).


«Ho un Kindle e ci leggo di tutto: libri nuovi, che compro, e classici fuori diritti, che scarico gratuitamente». Non sono molti gli scrittori italiani che per ora hanno preso sul serio la rivoluzione in corso che sta coinvolgendo il mondo dell’editoria. Francesco Dimitri, autore di Pan (Marsilio), è uno dei pochi che smanetta con la tavoletta bianca di Amazon. Lo scrittore, dice, si sta trasformando da produttore a fornitore di servizi. Dovrà adattarsi ai nuovi strumenti e inventare una nuova narrativa. Altro che ipertesto, la nuova frontiera saranno le serie, come in tv.

Cosa leggi col tuo Kindle?

Soprattutto narrativa, ma anche saggistica - Charles Fort in cima alla lista, è una mia vecchia passione. Sul mio Kindle ci sono King, Dickens, Lovecraft, Machen, Steinbeck, Poe, ma anche autori minori come Kelly Armstrong e Richard Laymon... devo continuare?

Per ora, sembra che gli ebook vogliano convincere i lettori che non sono così diversi dalla carta. come a far scordare che si tratta di un supporto diverso. Secondo te, quali sarebbero prospettive da sviluppare?

Prima di avere un ebook, neanche io mi rendevo conto di quanto avrebbe cambiato il mio rapporto con i libri. Leggere da un ebook reader è come leggere da un libro cartaceo, ma ne ho centinaia sempre con me (e risolvo, o almeno diminuisco, problemi di spazio piuttosto seri).
E poi, certo, ci sono degli svantaggi: una bella edizione su carta di buona qualità ha una carica sensuale che nessun reader ha. Però non è un gioco di vincitori e vinti: si andrà verso edizioni cartacee sempre più belle e edizioni digitali sempre più funzionali, raggiungendo un bilanciamento tra le due. Almeno, spero.

L'idea di una narrativa ipertestuale non ha avuto molto successo a parte qualche esperimento deludente. Le cose andranno diversamente con Kindle e soci?


Dubito. Il problema della letteratura ipertestuale è che anche gli esempi più famosi (penso ad Afternoon di Michael Joyce) sono una noia mortale, leggibili solo da accademici e appassionati. Altre forme ipertestuali, meno pretenziose ma concettualmente più interessanti, come i libro-game, probabilmente potrebbero conoscere una seconda giovinezza: ho visto edizioni elettroniche della storica serie Choose your own adventure, e sono fatte molto bene. Però ricordiamoci che i libro-game hanno avuto in alcuni periodi tirature altissime anche su carta.
Io credo che l''interattività' sia molto spesso una buzzword vuota. Il vecchio libro è già molto interattivo: leggere non è possibile, senza completare le parole con la propria immaginazione. Non è detto che l'ipertesto sia un'esperienza 'più' interattiva del 'testo-e-basta'. Poi, io sono sempre aperto alle novità, e magari tra due mesi uno scrittore nuovo mi esalterà con un ipertesto divertentissimo. Ma non credo che i lettori di ebook, di per sè, spingano in questa direzione.

Per uno scrittore cosa dovrebbe essere il nuovo? La possibilita' di aggiungere inserti multimediali in un romanzo (link, sonoro ecc.)?

Anche, ma non credo sia la cosa più importante. Il punto è che a molti la semplice parola scritta continua a piacere. Pensa ai blog: certo, ci sono video e immagini, ma si basano per la maggioranza sulla scrittura. Il mio non è un discorso conservatore, tutt'altro: adoro le forme miste, sono un videogiocatore appassionato, non sto difendendo una presunta 'purezza' del libro. Dico solo che non tutte le novità passano attraverso colori e suoni.
Io credo che la più grossa novità portata dai lettori di ebook potrebbe essere un cambiamento della forma-romanzo, e sto provando a lavorare anche in questa direzione. Il romanzo è solo una forma che la narrativa ha assunto in un periodo storico: potremmo arrivare a forme miste, che in parte pescano nei vecchi romanzi d'appendice, in parte nelle spettacolari soluzioni trovare negli ultimi anni da autori televisivi. Ecco, se una cosa prevedo nel futuro dell'ebook, è un ritorno massiccio della serialità.

Sei un appassionato di giochi. Quanto c'è di narrativo in un gioco? e di letterario?

Moltissimo. Io sono in particolare un appassionato di giochi di ruolo, che si basano sulla creazione di storie. E c'è una perfetta continuità tra giochi, scrittura e vita: tutt'e tre sono piacevoli, e se non lo sono, c'è qualcosa che non va. In tutti e tre i casi ci sono regole, e c'è il piacere che viene dal superarle, dall'aggirarle, dal trovare il modo di fregarle. Ci sono scrittori che hanno un approccio molto serio e per niente ludico alle loro cose. Da lettore, di solito non mi piacciono.
Tra l'altro il mercato dei giochi di ruolo, che è un mercato piccolo e di nicchia, ha scoperto gli ebook da anni, molto prima che arrivassero all'attenzione del grande pubblico.

Gli ebook segnano anche la fine dei limiti fisici di un romanzo. Pensi che lo spazio infinito del digitale possa cambiare qualcosa per il lavoro dello scrittore?

Assolutamente sì. Io credo che siano in arrivo tempi eccitanti, e lo dico sia da lettore che da scrittore. Da lettore, perché le mie possibilità di accedere a libri aumentano: se ho voglia di un horror, apro il mio kindle e in meno di cinque minuti ce l'ho. Da scrittore, perché appunto, ci sono nuove sfide, nuovi formati da inventare.
C'è un cambiamento epocale, in corso, in cui il libro smette di essere un 'prodotto' e inizia ad essere un 'servizio'. Con un kindle e un iPhone puoi accedere ai libri che hai comprato praticamente sempre. Se anche hai lasciato a casa il Kindle, accendi l'iPhone e continui a leggere il tuo ebook da dove ti eri fermato. Appunto, un servizio cui accedere. Niente più 'ora-come-faccio-ho-lasciato-il-libro-a-casa-e-il-bus-è-in-ritardo'. Per un lettore avido come me, questo è impagabile.
E gli scrittori diventano sempre più fornitori di servizi. Sempre più utili, sempre più importanti.
Ma anche gli editori avranno un posto fondamentale, perché se l'offerta diventa virtualmente infinita, un marchio che ti dice 'questa offerta è di qualità' serve.
Insomma: non vedo disastri, all'orizzonte, solo nuove possibilità per tutti. Tutto sta a saperle coglierle... ma questo, ahimè, è un altro discorso, e mi sembra che non tanti si stiano distinguendo per lungimiranza.

In un articolo di qualche mese fa, Steven Johnson suggerisce uno scenario nel quale il nostro libro è inserito in rete, potremo sempre ricorrere a quello che chiama un "global book club". Le pagine avranno un loro rank e gli scrittori potranno lavorare su questo, taggare i singoli paragrafi, acquisto di singoli capitoli. Ecc. Tutto questo t sembra una prospettiva positiva per il futuro per la letteratura?


Completamente. Ancora una volta: tutto sta ad adattare la narrativa alle tecnologie con cui narri. Quando il libro cartaceo era la forma privilegiata di diffusione di storie, il 'romanzo' così come lo conosciamo si è imposto come standard. Adesso nascono forme nuove. Ma anche nuovi modi di lavoro: riscrivere vecchie cose è il sogno di qualsiasi scrittore... e la possibilità di farlo che offrono i formati digitali è formidabile. Magari interagendo con i lettori in tempo reale, e cogliendo i loro spunti, come facevano i cantastorie orali di un tempo.
E le vecchie forme non moriranno: continueremo ad avere anche romanzi 'classici', per fortuna. Solo, ci saranno forme nuove che si affiancheranno loro.

Luca lo sa

Luca dice bene i miei dubbi sull'iPad.

Tecnologicamente, l'iPad è un'evoluzione di idee già viste, con un tocco (questo sì magico) di design straordinario. E rispetto a ogni altro tablet è focalizzato su un valore d'uso ben preciso: leggere, accedere al web, accedere a contenuti. E adattandosi al mezzo, fare la mail, fare i conti, fare presentazioni, scrivere. Non è il massimo della portabilità e non è il massimo per produrre: a quelle attività servono meglio l'iPhone e il Mac. L'iPad doveva diventare il massimo in qualcosa di intermedio. Che probabilmente è la fruizione comoda dei contenuti digitali, a un prezzo molto contenuto se ci si accontenta (come è probabile per adesso) della versione che privilegia la connessione wifi.