Monday, March 19, 2007

Miti di casa nostra

In occasione dei 50 anni dei Miti di Barthes, ritiriamo fuori questo pezzetto uscito qui.


Mozzarella di bufala, un mito d'oggi

Era qualche tempo che mi ronzava in testa una questione. In sostanza la si potrebbe riassumere così: perché una volta i ristoranti italiani erano pieni di cocktail di gamberi e pennette alla vodka e ora non lo sono più? Possibile che non ce ne sia più traccia? Sì, è possibile: non vedremo più comparire improbabili conchiglione con qualche crostaceo appoggiato su di una foglia di lattuga e affogato nella salsa rosa né tantomeno pasta corta ai superalcolici. Quei menù ricompariranno tuttalpiù in qualche amarcord alimentare. D'altra parte, basta poco per accorgersi che quei piatti sono stati sostituiti da altri. Da Ragusa a Bolzano, esistono altri cibi che spopolano in ogni trattoria, ristorante, pizzeria, spaghetteria, bruschetteria. Di bocca in bocca, è proprio il caso di dirlo, nuove scoperte attraversano senza remore le nostre terre, colonizzando le nostre tavole, omologando il gusto senza che nessuno si fermi a guardare nel piatto in cui mangia. E su di esse, su tali novità ci concentreremo più avanti.
Esiste un vero e proprio fenomeno evoluzionistico. Un piatto compare sul pianeta dalla ristorazione; vince la lotta per la sopravvivenza per qualche anno; poi, in breve tempo, viaggia verso l'estinzione, verso lo status di fossile alimentare. Quali sono le ragioni di questa ascesa e del suo inevitabile declino? Molteplici, si dirà. Certo, il mercato conta. Certe esplosioni sono determinate dal mercato. Se qualcosa costava 100 pochi anni fa e oggi costa 10, è lecito aspettarsi che se ne trovi in maggior quantità nel circuito della produzione e della vendita.
Tuttavia, noi in questo articolo formuleremo un'altra ipotesi. Chiediamoci: e se la parabola di un cibo rispondesse alla stessa logica della nascita e della fine di una moda? Le categorie buone per analizzare un fenomeno come quello dei trend nell'abbigliamento, del look, possono funzionare per capire meglio quelle che si presentano come vere e proprie "mode alimentari"? Ecco, questo è il punto. Proviamo a partire da un classico e vedere di capirci qualcosa.

Simmel, Bourdieu e la distinzione

«La moda», scrive Georg Simmel nel suo saggetto più celebre, «è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale» (1911: 15). In poche parole, il padre della sociologia tedesca individua i due concetti chiave dell'analisi tanto psicologica quanto sociologica del fenomeno della moda. Secondo Simmel, l'impulso a seguire le mode negli uomini è determinato dalla sicurezza che un modello è in grado di trasmettere e dalla capacità di integrazione nella società che tali mode realizzano. Ma la moda in generale è anche altro. È estro, fantasia, creatività, distinzione. E Simmel non lo dimentica, anzi sottolinea proprio che essa «nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi» (1911: 15).
La moda, anche nel suo senso più esteso, è questo susseguirsi dialettico di desiderio integrazione e fuga dalla normalità. È uno scatto in avanti verso il nuovo e una sosta nel nuovo che è intanto divenuto la regola. Questa trasformazione ciclica è ciò che fa sì che le mode passino, siano a tempo determinato, con una data di scadenza. Non si dà moda in assoluto, essa per sua intima essenza è caduca.
Ecco perché non si vedono più in circolazione cocktail di gamberi, nessuno ambisce più a distinguersi attraverso quel piatto. L'epoca si è conclusa e il piatto è tornato nell'oblio.
Un contributo importante per l'analisi di almeno una delle due tendenze sociali che determinano la moda è fornito dalla celebre opera di Pierre Bourdieu, La distinzione (1979). Si tratta, come è noto, di un corposo lavoro nel quale il sociologo francese si rivolge in diverse direzioni, tra le quali, una confutazione di qualsiasi critica del gusto di tipo intellettualistico. A differenza di Kant, il giudizio di gusto secondo Bourdieu è radicato nella concretezza dell'esistenza e nella struttura stessa delle classi sociali. Ci sono ragioni ben precise di ceto e di censo perché si giudica bella un'opera d'arte, ma anche – e questo preme molto a Bourdieu – per cui si beve una marca di whiskey piuttosto che un'altra o un determinato tipo di musica. Chi fa parte della classe dominante crea la propria identità anche attraverso la cultura cosiddetta "bassa", per esempio quello che sceglie in pizzeria. Chi non appartiene a quella classe, e ambisce ad entrarci, la scimmiotta. «La cosiddetta volgarità», ha detto una volta Bourdieu in un'intervista, «consiste spesso nel fatto che uno che non è naturalmente distinto, cioè non plasmato in modo da esserlo spontaneamente, assume gli atteggiamenti di chi è distinto» (1993). Non si tratta di "snobberia" sostanzialistica del sociologo francese. Piuttosto, Bourdieu mette in evidenza il fatto che i giudizi di gusto sono radicati in una rete di pratiche sociali che non possono essere messe tra parentesi.

Un latticino d'élite divenuto di massa

Sulla scorta di queste indicazioni tratte da due classici dell'analisi sociologica del gusto riprendiamo in mano il tema dal principio. Esistono oggi una o più mitologie (nel senso anche di Barthes 1957) della cucina affini a quelle passate alla storia? Noi pensiamo di sì. Esiste un case study eclatante della nostra ipotesi sulla analogia tra la moda e i cibi che vanno per la maggiore: la mozzarella di bufala. Questi latticini "dop" (denominazione di origine protetta) stanno ai nostri anni come i cocktail di gamberi in salsa rosa stavano agli anni Ottanta. Nella fenomenologia delle mode alimentari, "la bufala" è divenuta uno dei maggiori status symbol della ristorazione. Trecce, bocconcini, mozzarelle giganti si trovano ormai ovunque. Un letto di rucola (ci sarebbe un discorso da fare anche su questa specie d'insalata, che un tempo si trovava solo nei campi e si chiamava "rughetta"), pomodorini, volendo qualche fetta di prosciutto San Daniele o Parma. In pizzeria c'è la pizza con la bufala e i pachino. È la variante chic, si fa per dire, e costosa della classica Margherita.
Sotto la spinta del mercato - e del consumo e della condizione di prodotto esclusivo di massa - sono nati anche negozi che vendono quasi solo mozzarella di bufala. Esercizi nei quali si trova qualche cacio, qualche scamorza, carciofini sott'olio, ma se non ci fosse stato il boom delle bufale, sarebbero stati poca cosa.
Il mercato è esploso in questi anni e la produzione pure. In un'area che va dall'Agro Pontino al fiume Volturno e al sud della Campania, nel 2000 si producevano 18.200 tonnellate di mozzarella; nel 2001 si sfioravano 25 mila tonnellate; nel 2002 erano 26 mila0a, . Anche i prezzi sono lievitati: se a Napoli e dintorni la specialità casearia ino al sud della Campania, Pontino al fiume VOlturno costa tra i 12 e 14 euro al chilo, a Roma arriva a 15,50, a Milano arriva a un euro in più. Le comitive di giapponesi sono arrivate anche a visitare i caseifici campani, alcuni dei quali riescono a produrre mozzarelle a ciclo continuo, 24 ore su 24. Anche al Cnr hanno pensato bene di inventare, già un paio d'anni fa, un sistema di riconoscimento del latte di bufala che, a rigor di legge, dovrebbe essere l'unico ingrediente del formaggio snob. Per non cadere in "truffe" che spacciano per bufala mozzarelle "ibridate" con latte banalmente vaccino o, addirittura, di pecora o capra, la tecnica messa a punto permette di individuare le differenti proteine contenuto nei diversi liquidi. Così anche la scienza ci mette lo zampino per creare il mito della mozzarella à la page.

Mode alimentari? Una questione di classe

Come non vedere in questo exploit un'applicazione delle idee di Simmel alle "mode alimentari"? Tutti questi aspetti che riguardano il consumo della mozzarella di bufala conducono alla nostra ipotesi. Si vende e si mangia mozzarella di bufala perché è di moda. Certo, è buona, è un'altra cosa rispetto al fior di latte, ma questo può bastare a giustificare l'occupazione massiccia delle tavole italiane? Si mangia perché ci si adegua a un modello esclusivo che però è a portata di mano. Al ristorante la si ordina perché rassicura chi la mangia di far parte di quell'élite di persone che conoscono le cose giuste da mangiare, sanno apprezzare alimenti raffinati. Che sono "distinte" secondo la definizione di Bourdieu. O almeno che sono convinte di esserlo.
Un tempo chi mangiava la "bufala" era una persona di classe (elevata), che apparteneva a una élite che sapeva/poteva distinguere e apprezzare le differenze tra un formaggio e un altro. Distingueva e si distingueva. Era parte di un'avanguardia raffinata che sapeva scegliere e giudicare. Eppure, Bourdieu non si stanca di ricordarcelo, "essere un individuo di classe" equivale ad "appartenere a una classe privilegiata". Avere gusto e saper apprezzare la mozzarella di bufala significa, soprattutto, poterlo fare.
Come tutte le cose di moda ha perso l'aura di classe. L'élite, l'avanguardia che ha lanciato la moda, probabilmente, l'ha già dimenticata pronta ad inventare qualcos'altro da gettare sulla tavola. Tutti coloro che mangiano "la bufala" percepiscono la propria distanza, la propria "distinzione". Per dirla con Simmel, sentono appagato il loro bisogno di diversità. Ma non si rendono conto di essere giocati da un meccanismo che li trascende. Il pendolo della moda sta tornando indietro la creatività si è esaurita e ora è il tempo del già visto. È il meccanismo della moda, bellezza, anche nei ristoranti ci sono le collezioni stagionali. Ancora non è arrivata la primavera che già si pensa all'inverno prossimo.

La seduzione del consumo

Abbiamo fatto l'esempio della mozzarella di bufala, ma qualcosa di analogo capita per altri cibi. Che dire dei pomodori di Pachino? Pare non esistessero 15 anni fa, poi di stagione in stagione hanno sbaragliato il mercato. Addio San Marzano, addio classici pomodori da insalata. I Pachino sono diventati un marchio tutelato dall'Unione europea, un brand per accedere nel magico mondo del paradiso alimentare. Per non parlare poi del salmone affumicato. Era un pesce da matrimonio, non da tramezzino. Adesso è ammassato in tutti i supermercati accanto agli yogurt, in saldo già prima di Natale.
Zygmunt Bauman nel suo libro sulle conseguenze della globalizzazione sulle persone mette in evidenza come quest'aspetto sia parte essenziale dell'atteggiamento consumistico contemporaneo. Scrive il sociologo polacco: «Perché la loro capacità di consumo si accresca, i consumatori non vanno mai lasciati riposare; vanno tenuti sempre svegli e all'erta, costantemente esposti a nuove tentazioni, in modo di restare in uno stato di perenne eccitazione» (1998: 93-4). E cosa c'è di più eccitante di un cibo esclusivo, che solo noi "eletti" possiamo consumare? Questa ricerca di originalità è riassunta ancora da Bauman. «Lo scopo del gioco del consumo non è tanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumulare ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l'eccitazione per sensazioni nuove, mai sperimentate prima. I consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e ordinario» (1998: 93). E questo è un gioco al quale tutti noi più o meno inconsapevolmente ci prestiamo. «In una società dei consumi che funziona correttamente», sottolinea il sociologo polacco, «i consumatori si danno da fare per essere sedotti» (1998: 93). Si tratta di una seduzione che solo l'esotico, il lontano, l'irraggiungibile può soddisfare. Beninteso, deve trattarsi di esotismo fatto su misura per noi, per il quale non dobbiamo affaticarci troppo a cercarlo. Deve essere qualcosa che possiamo trovare anche nella pizzeria o nella trattoria sotto casa. Appunto, come la mozzarella di bufala.



BIBLIOGRAFIA

Barthes R. (1957), Mythologies; trad. it. Miti d'oggi, Einaudi, 1974

Bauman Z. (1998), Globalization. The Human Consequency; trad. it. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, 1999

Bourdieu P. (1979), La distinction; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, 1983

Bourdieu P. (1993), La violenza simbolica intervista nell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=388

Simmel G. (1911), Die Mode; trad. it. La moda, Mondadori, 1998

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