Wednesday, September 23, 2009

Dicerie e untori

«Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore». E ancora: «La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di una prova storica». Giuseppe D’Avanzo spiega su «la Repubblica» del 3 settembre come il caso Boffo sia stato costruito ad arte. Il direttore del giornale della Cei è stato fatto fuori con un «killeraggio» – Gianfranco Fini dixit – a mezzo stampa. L’arma qui è un foglio di carta che riporta una voce che circolerebbe.
La rivoltella del pettegolezzo politico spara a ripetizione. Scrive Vittorio Feltri in prima sul «Giornale» il 14 settembre: «Oggi tocca al premier, domani potrebbe toccare al presidente della Camera. È sufficiente – per dire – ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza Nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme». Di nuovo, lo strumento di offesa politica qual è? La voce che circola per i corridoi di Montecitorio. Nell’epoca in cui il privato è divenuto politico, la diceria non può che essere uno strumento legittimo lotta tra poteri che funziona benissimo per dettare l’agenda e mettere in difficoltà, distruggere l’avversario.
«Un tratto tipico di quasi tutti i rumors», scrive Sergio Benvenuto nell’ottimo Dicerie e pettegolezzi (il Mulino), «è l’essere una sorta di apologo morale, che mette in guardia contro qualcosa o qualcuno». La diceria ha uno strascico perché dietro a ogni rumor c’è una condanna, la condanna di una morale condivisa. Cosa c’è di peggio, di più esemplare e disdicevole per una morale bacchettona, di un omosessuale molestatore che dirige il quotidiano dei vescovi e muove qualche critica all’uso disinvolto del sesso da parte del Presidente del consiglio?
Non è proprio il «contrappasso» che Vittorio Feltri («Il Giornale» 28 agosto) chiama in causa nella vicenda Boffo? «Il supermoralista condannato per molestie» era il titolo del suo editoriale. C’è qualcosa di più succulento? E la chiusa dell’articolo ha la morale come una favola di Esopo: «Il problema è che in campo sessuale ciascuno ha le sue debolezze ed è bene evitare di indagare su quelle del prossimo. Altrimenti succede di scoprire che il capo dei moralisti scatenati nel vituperare il capo del governo riveli di essere come quel bue che dava del cornuto all’asino».
Il problema col pettegolezzo è che non basta dimostrarne l’infondatezza per farlo uscire dal mercato delle notizie. È uno strumento della retorica non della logica, la diceria deve essere verosimile non vera. Lo spiega bene il politologo Cass Sunstein in un libretto in uscita proprio in questi giorni negli Usa. On Rumors (Farrar, Strauss and Giroux) è una fenomenologia tascabile che intende rispondere a due domande: Perché accettiamo voci anche assurde e le diamo per vere? Cosa possiamo fare per difenderci da queste voci?
«Definiamo rumors – spiega Sunstein – quel termine che si riferisce a un fatto che non è stato dimostrato come vero e che riceve la credibilità non da un’evidenza diretta che lo supporta, ma solo perché altre persone sembrano crederlo». Una voce è vera perché qualcuno ci crede e perché qualcuno la metto in giro affermando che è vera.
Le dicerie si diffondono come un virus e la medicina, nel mondo perfetto, dovrebbe essere la libertà d’espressione. Immettiamo la pseudo-notizia e la sua confutazione sul mercato e alla fine il bene e il vero trionferanno. Sarebbe bello ma purtroppo, spiega Sunstein, le cose non vanno così. Spesso le persone s’informano in un modo viziato (biased assimilation) e allora è difficile farle ricredere.
Obama amico dei terroristi o Obama musulmano, sono rumors che con difficoltà sono stati smontati dall’entourage del presidente nei mesi scorsi. Sunstein ricorda anche il lavoro fatto con Fight the Smears il sito che Obama ha usato durante la campagna elettorale per combattere le voci false che venivano fatte circolare contro di lui.
Un fenomeno analogo è capitato in questi giorni in Italia. Vittima il presidente della Camera. Gianfranco Fini il compagno, Fini rema contro Berlusconi, trama alle spalle del governo, Fini il laicista abortista, e ora invischiato in uno scandalo a luci rosse a Montecitorio. Che c’è di dimostrato in quest’escalation di accuse? Poco o nulla. Si attribuisce a Fini qualcosa che manca del dato fondamentale dell’informazione: la certificazione della fonte. E quindi della possibilità di mettere in discussione la notizia.
I primi a dar per buona una voce sono quelli che ne sanno di meno del quid o del personaggio in questione. Poi, pecora dopo pecora, il gregge si allarga fino a inglobare anche coloro che dovrebbero avere qualche strumento critico in più per smontare il pettegolezzo. Nota Sunstein, anche tra i più informati ci saranno quelli che si chiederanno: se lo crede così tanta gente possibile che questa voce non sia fondata?
Il meccanismo esplosivo del passaparola è analogo a quello della rete, il vecchio pallino critico di Sunstein fin dai tempi di Republic.com (il Mulino). Blog e social network sono i propagatori perfetti dei rumors. Di link in link, di like in like, il ruscello diviene fiume inarrestabile.
Il cardine della propagazione virale delle voci sono i facilitatori. Siano il partito e le Chiese, il blog di riferimento o il giornale che si legge abitualmente, l’opinione pubblica spesso si appoggia ad altro per farsi un’idea, per prenderla per buona o meno. E se il propagatore è furbo – scrive Sunstein – sottolineerà che la voce che riporta la condividono anche tanti altri facendo leva sul conformismo diffuso: lo sanno tutti quel che capitava a Montecitorio, la conoscevano tutti i direttori dei giornali la vicenda di Dino Boffo.
Un’alchimia della diceria che aiuta la polarizzazione delle opinioni. Se siamo in tanti a pensarla in un modo, allora l’idea che abbiamo è giusta e dobbiamo difenderla. Più siamo, più diminuiscono i dubbi, più aumenta la sicurezza e l’estremismo. Per questo motivo non è facile combattere una voce negativa che circola sui media. Addirittura può accadere che provare a correggerla, cercando di dimostrare la sua infondatezza, finisca per avere l’effetto contrario, accreditandola ancora di più come vera: «se X vuole confutare la diceria y, significa che y non deve poi essere una sciocchezza».
Si diceva che per Sunstein lo strumento principale di propagazione delle dicerie è il web. Con l’abbattimento delle barriere e dei filtri, Internet ha anche esposto gli individui a un pericolo di diffamazione superiore. E per personaggi pubblici – come il suo attuale datore di lavoro, scrive malignamente il «New York Post» a proposito delle preoccupazioni di Sunstein – questo può essere un problema serio. «Uno dei grandi rischi dell’era dei blogger e di YouTube – scrive il politologo – è che le nostre affermazioni e azioni possono non solo essere archiviate per sempre ma anche controllate così da vicino che ognuna di esse può essere estrapolata dal contesto e scelta per rappresentare qualcosa di generale, magari di oscuro e allarmante».
In Italia l’impatto dell’informazione on line sull’opinione pubblica è minore rispetto agli Usa. Le dicerie da noi rimbalzano ancora tra i media tradizionali, giornali e tv. Eppure le preoccupazioni di Sunstein sulla ridefinizione della libertà d’espressione e di ostacolare «killeraggi» a mezzo stampa, ci riguardano.
Internet ha trasformato il mercato delle informazioni ed è giunto il momento di prenderne atto e di correre ai ripari. Senza auspicare la censura, spiega Sunstein, ma introducendo alcuni meccanismi di «raffreddamento» (chilling effect) che possano combattere la propagazione virale delle dicerie. Ogni mercato ha bisogno di standard e di regole di base; nessun mercato funzione in assoluta libertà, afferma il politologo, per chiudere in un coraggioso (azzardato?): «non è scontato che l’attuale sistema di regolamentazione per la libertà di parola sia quello che vorremmo o dovremmo scegliere per l’era di Internet».

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