Anni fa (c'era ancora Biscardi), per una bella rivista di pallone, scrissi questo pezzetto sull'impossibilità teorica della moviola come strumento per decidere definitivamente le questioni che sorgono sui campi di calcio. Sul tema, oggi Repubblica ci fa un Diario.
La questione è seria, soprattutto per Biscardi. Già, perché la questione in questione è da qualche anno il Kulturkampf del rosso di Larino. Stiamo parlando della moviola a bordo campo, la panacea che dovrebbe eliminare
per sempre il male che affligge il gioco del calcio nel XXI secolo: gli errori degli arbitri. Un grande occhio che vigila su quelli fallibili delle giacchette nere e la possibilità di vedere e rivedere in tempo reale un’azione dubbia per sciogliere ogni dubbio.
Era fuorigioco o no? Il centravanti s’è buttato? Dentro o fuori l’area? Mano? Volontario o casuale?
La tecnologia riempirebbe il buco della finitezza umana, così vuole la vox populi del Processo. Quasi quell’occhio fosse quello di Dio che from nowhere, come dice bene Thomas Nagel, vigila sulle cose calcistiche. Eppure, tra la moviola e il campo c’è un ostacolo grosso così.
Il problema è serio perché contro la moviola in campo c’è un argomento più solido, più rigoroso di quelli dei romanticoni, del calcio dal volto umano, delle maglie di lana e senza sponsor, dei giocatori con la brillantina Linetti e la retina per tenere i capelli. Certo hanno ragione pure loro che sostengono che un eccesso di tecnologia farebbe perdere quell’ultimo briciolo di fascino al gioco del pallone.
Ma non è una questione solo estetica, di poesia.
Il fatto vero è uno: che la moviola in campo non funziona per una ragione, per così dire, filosofica, o meglio, ermeneutica. Un argomento proposto da uno dei più importanti filosofi del XX secolo, Ludwig Wittgenstein. È un corollario della famosa questione del «seguire una regola» esposta nelle Ricerche filosofiche, l’opera più nota insieme al Tractatus del genio austriaco. Le Ricerche furono pubblicate postume nel 1951 e sono una raccolta di paragrafi più o meno lunghi («una raccolta di schizzi paesistici», la definisce Wttgenstein) su di una costellazione di temi distinti ma imparentati. Tra i luoghi principali ci sono qualche decina di pagine nelle quali Wittgenstein
affonda la lama in uno dei temi classici della tradizione filosofica per farne piazza pulita. Il platonismo, il realismo vanno a farsi benedire, non servono a spiegare perché le parole hanno un senso e come facciamo noi a comprenderlo.
«Seguire una regola è una prassi» e questo basti. «Quando incontra la roccia», scrive altrove Wittgenstein, «la vanga si piega», è inutile chiedere oltre. Non ha senso cercare di dire con nuove parole il significato, sempre di parole si tratterà, sempre con i segni avremo a che fare. La cosa, la regola in sé rimarrà
ancora nascosta. E lo stesso discorso vale per la moviola.
La questione in sintesi è: la regola non è in un altrove distante, il linguaggio non è uno strumento da perfezionare sempre più (magari tecnologicamente) per inquadrare finalmente il mondo delle regole e dei significati. Non esisterà nessuna riscrittura, spiegazione, interpretazione (come scrive Wittgenstein) a rendere più precipuo, più comprensibile il segno. Certo, di fatto si può dare - e
si dà spessissimo - che una nuova spiegazione aiuti a comprendere qualcosa che prima non si era afferrato. Ma solo perché quel significato c’era già prima, perché l’espressione della regola era in qualche modo già compresa.
Allo stesso modo, è inutile credere che la ripetizione dell’azione incriminata alla moviola possa in sé dirimere la questione. Che cento telecamere distribuite intorno al campo possano chiarire se il rigore c’era, se il guardalinee ha fatto bene a sbandierare il fuorigioco oppure se quello sgambetto era volontario. Un’immagine, come quelle della moviola, non sarà mai autoesplicativa e trasparente, il Deus ex machina che risolve definitivamente il dubbio. Come ogni segno, anche la moviola ha bisogno della nostra familiarità per comprendere se il fallo c’era, se era volontario o meno.
Di per sé dice poco o nulla, come d’altro canto dimostrano le interminabili discussioni attorno ai replay nei salotti della domenica sera.
Certo, può essere utile e a volte funzionale tenere un monitor lungo la linea dell’out, con un quinto uomo a vigilare sull’operato del primo, del secondo, del terzo e, perché no, del quarto. Tuttavia, quelle sequenze rallentate non saranno mai decisive in assoluto. Le immagini della moviola da sole non possono certificare un bel nulla e in fin dei conti oltre l’arbitrio dell’arbitro (o di chi per lui) non c’è modo di andare.
Certo, si potrà dire, è solo una questione de jure e non de facto.
Qualcuno può dire: il fallo di mani di Zauri in Lazio-Fiorentina di poche settimane fa è un caso lampante di come la moviola possa aiutare. Ma veramente serviva la moviola a scegliere? Non bastavano arbitro e assistenti un po’ più attenti? Qual è la morale di questo frullato di Biscardi e Wittgenstein? Che neanche la più perfetta riscrittura tecnologica di una partita
potrà mai risolvere in maniera definitiva e assoluta la questione dell’applicazione corretta di una regola. Nella società dell’immagine, la moviola in campo è solo una scusa ulteriore per sottrarsi alla fallibilità umana, all’inesplicabilità teoretica del seguire una regola.
Per giocare una partita di pallone, come per vivere, ci vuole il coraggio di sfidare l’inevitabilità dell’errore. Anche quello degli arbitri.
Thursday, July 29, 2010
Moviole in campo e Ludwig Wittgenstein
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