Come molti, a sedici anni (che poi erano gli anni ottanta, ed era forse giusto così) ho subito per un po’ la fascinazione della scrittura sperimentale che mischia racconto e meta, che il protagonista è lo scrittore, che a volte parla con l’autore e storia e meta-storia s’intrecciano. Insomma, tutto quello che era uscito da certi anni settanta e aveva trovato in parte patria nei primi eighties. Leggere quel certo Calvino e poi la versione carta da zucchero dei Fiori blu di Queanau e Borges (certo Borges) ci faceva sentire così smart e intelligenti che addirittura ci facevamo regalare i Meridiani a Natale e le stampe di Escher.
Poi la malattia sembrava passata, quando è apparsa la Trilogia di New York di Auster. Epperò è bastato solo il primo romanzo per vedere che l’incanto era finito, che il protagonista col nome dello scrittore non è chissà poi che grande idea e che forse io alla letteratura avrei chiesto anche altro oltre alla condivisione di una certa arguzia.
Nel 2010, avrei creduto che quell’epoca fosse tramontata. E invece pare che il virus circoli ancora. No, non sto pensando al masturbatorio Houellebecq, criticato su Repubblica ieri da Ben Jelloun. No, penso all’unica lettura da mare fatta finora. L’ultimo libro di Jonathan Coe non è niente male come intrattenimento agostano. Peccato per le ultime tre/quattro pagine nelle quali esce quel sapor di trent’anni fa, come una pennetta alla vodka, però rancida.
Friday, August 20, 2010
Non se ne può più di destini incrociati
Pubblicato da Alessandro Lanni a 11:58 AM 0 commenti
Etichette: Io, jonathan coe, Libri
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