Ci siamo appassionati all'idea pre-postmoderna dei Miti d'oggi di cercare una "lingua bianca" sotto alle incrostazioni delle ideologie. Qui anche un'intervista a Paolo Fabbri, semiologo bolognese.
Fare i conti con l'ideologia borghese attraverso il detersivo, le bistecche e il volto di Greta Garbo. Cinquant'anni fa, quando apparvero in forma di volume unico, le Mitologie di Roland Barthes furono al tempo stesso una sorpresa e una sfida per la Francia degli esistenzialisti e che stava per eleggere De Gaulle. Con quel libretto si parlava di una società fatta di automobili, di cinema, di incontri di catch, di Tour de France e di tante altre forme in cui il quotidiano occidentale si esprime. Un catalogo dell'attualità che si inseriva dentro la cultura di massa mostrandone i meccanismi, gli automatismi inconsapevoli che la tenevano in piedi e che l'intellighentzia (marxista e non) metteva tra parentesi preferendo occuparsi di Dialettica, di Storia, di Uomo.
Una carrellata di flash illuminanti del semiologo di Frammenti di un discorso amoroso. Un articolo di “Elle” (il “femminile” delle donne brillanti ed emancipate) è l'occasione per sottolineare quanta strada ci sia da fare per liberare anche le scrittrici di successo dal modello tradizionale che le incasella. Una mostra parigina – “The Family of Man” – mette all'opera il mito della grande famiglia degli uomini e Barthes lo fa a fette: l'idea di un'unica comunità planetaria è una mistificazione alla quale l'umanesimo progressista deve riuscire a sfuggire.
Ancora piccole cose per comprendere il generale. “Mangiare la bistecca al sangue – scrive ancora Barthes – rappresenta una natura e insieme una morale”. C'è un'identità nazionale in una fetta di carne accompagnata dalle frittes. “Come il vino, la bistecca è, in Francia, elemento base, nazionalizzato ancor più che socializzato”. Bassa, alta, cubica, ben cotta (blu), al sangue: un tricolore per la tavola.
Le mitologie di Barthes sono istantanee che aprirono gli occhi di molti sugli effetti della cultura di massa (quasi televisiva) e sulla nascita di un mondo pop fatto di plastica e pubblicità. Attraverso il linguaggio, si rende esplicito (e lo si critica) un senso comune cristallizzato. Una costellazione di miti che, con un lavoro di decostruzione, emergono per quello che sono: segni, segni complessi che parlano di una cultura particolare (quella “piccolo-borghese”) e che la rendono universale.
Nella Premessa al libro, Barthes sintetizza l'obiettivo dei suoi scritti. “Il punto di partenza di questa riflessione era il più delle volte un senso di insofferenza davanti alla ‘naturalità’ di cui incessantemente la stampa, l'arte, il senso comune, rivestono una realtà che per essere quella in cui viviamo non è meno perfettamente storica: in una parola soffrivo di vedere confuse ad ogni occasione, nel racconto della nostra attualità, Natura e Storia”. Vale a dire, rendere relativo quello che ci circonda togliendogli quell'aura di ineluttabilità con cui si presenta.
A mezzo secolo di distanza, “Le Nouvel Observateur” ha chiesto ad alcuni tra i più celebri intellettuali francesi di rinnovare l'operazione barthesiana. Girare lo sguardo intorno, alzare le antenne per cogliere (e soprattutto spiegare) le mitologie attuali. E allora, via lo “squalo” della Citröen e dentro le auto 4x4, niente più bistecca e dentro l'onnipresente sushi, addio Greta Garbo ecco Kate Moss.
Certo, la radicalità dei Miti d'oggi si è un po' persa. Criticare la cultura di massa, o comunque ripensarla, è divenuta attività che solo gli snob possono permettersi.
Poi ci ha pensato pure la globalizzazione ha scombinare le idee. Se Barthes molto spesso si riferiva alla “francesità” dei suoi miti, i suo epigoni contemporanei evocano una mitologia che perlopiù va bene per qualsiasi angolo dell'occidente. Se si escludono i miti più sciovinisti come Zidane e i tailleur di Ségolène Royal, nel catalogo del XXI secolo ci sono i serial tv (come i Sopranos), l'iPod, Google, gli Ogm, i blog e le compagnie low cost, sono il prodotto e gli strumenti dell'Uomo Occidentale. Addirittura, i telegiornali delle 20 sono una forma globale di mitizzazione della realtà (è l'antropologo Marc Augè a parlarne sull'Observatuer). Non c'è differenza tra Parigi e New York, Roma o Berlino: tutti quanti partecipiamo di un grande immaginario condiviso dal quale è molto difficile evadere. Anzi, il mito dei miti, quello che raccoglie proprio la caratteristica di tutti gli altri, è la “delocalizzazione” anima dell'era globale e “premessa a una denazionalizzazione della popolazione” come scrive il filosofo e urbanista Paul Virilio nel suo contributo al dossier.
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Tuesday, April 03, 2007
Ancora Barthes
Pubblicato da Alessandro Lanni a 7:31 PM
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