Provate per esempio a pensare a vostra madre, poi a voi stessi, infine a un politico famoso. Se siete nati a Milano o New York, il vostro cervello si attiverà in maniera diversa per ognuno di questi pensieri. Se invece vivete a Tokyo o Delhi, tenderete a unire le tre cose, mettendo insieme la percezione dell´Io, della famiglia e della società.Certo, la colpa non è di Anais Ginori, la giornalista che oggi su Repubblica presenta l’ennesima grande frontiera della nuova koinè: le neuroscienze. La quantità di incongruenze, paradossi, difficoltà, che escono fuori a leggere l’articolo meriterebbero almeno di sorvegliare le parole. Si racconta dell’ultimo filone che avrebbe preso lo studio del cervello, ossia studiare quanto le differenze geografiche e culturali determinano il nostro modo di pensare. Messa così sembrerebbe un’apertura. Vedi, si potrebbe dire, si sono aperti a una qualche forma di relatività, i norvegesi e gli aborigeni australiani magari pensano in maniera diversa. E la giornalista lascia intendere questo (certo dice pure che ci sono discussioni, ma se lo scrive Newsweek un qualche interesse ci sarà).
Il gran problema tuttavia è appoggiare quest’intuizione sul legame tra pensiero (che poi qualcuno dovrebbe dire cos'è) e latitudine di provenienza sulle neuroscienze come se queste fossero qualcosa che sta fuori dalla cultura così come è a Manhattan oppure nel mezzo del Borneo.
Come se lì ci fossero le culture, che producono dei modi di pensare così e così (nei boxini, Rep. mette Aristotele e Confucio), e fuori da esse ci sono gli scienziati con i loro strumenti, evidentemente extra-culturali e non frutto di pensiero, che ti fanno vedere le differenze tra culture.
In tutti questi studi, e soprattutto in tutte le sintesi giornalistiche che li raccontano, non sopravviene mai il dubbio che le neuroscienze non stiano da qualche parte fuori, fuori dalle culture. Che anch’esse sono un prodotto di un cervello e dunque di una cultura.
Sarebbe facile discutere affermazioni come «l´individualismo degli occidentali o lo spirito collettivo degli orientali è visibile nei processi cognitivi». Vorrei proprio vedere cosa si vede.
Ma non è solo questo, né i rischi di razzismo che suciterebbero teorie del genere (non mi pare ne siamo stati immuni anche prima di venire a sapere dell’esistenza delle neuroscienze culturali). Piuttosto, quel che andrebbe discusso è l’ingenuità con cui si distinguono le cose che dipendono dalla cultura e quelle che no, che non sono affare della cultura ma che ci dicono proprio come le cose stanno. E questo non può essere affare delle neuroscienze.
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