Sul nuovo Reset, un lungo dossier sulla questione rom. Io ci ho scritto questo dopo che ero stato qui.
Il viaggio in un’integrazione possibile inizia in fondo a viale Padova, confine nord-est di Milano, il Naviglio della Martesana è a pochi passi. Un lungo rettifilo grigio e polveroso di una periferia come tante altre in Europa.
C’è da sorprendersi della serie di insegne che si alternano lungo la strada. «Qui cucina italo-curda» accanto a «Aya Sofia – ristorante turco», il ristorante arabo e quello eritreo. Il radicamento è diverso da quello di altre città italiane, come Roma, nelle quali l’immigrazione è ancora molto ai margini del tessuto sociale della città. Volti poco lumbard sembrano a casa loro da queste parti.
Poi, si svolta a sinistra e si scopre un altro mondo nel quale gli «extracomunitari» hanno qualcuno che addirittura li segue in classifica, gli «ultimi» tra gli «ultimi».
L’edificio della Casa della Carità assomiglia molto a una colonia estiva di quelle costruite un secolo fa lungo le spiagge dell’Adriatico. Sarà il cielo triste, ma il giallo ocra del centro gestito da don Virginio Colmegna spicca nel paesaggio metropolitano. Gli infissi color rosso fuoco, le finestre larghe che fanno pensare a molta luce all’interno mettono di buon umore. Il Comune di Milano ha messo a disposizione lo stabile qualche anno fa. Quattromila metri quadrati di solidarietà e impegno, divenuti operativi nel 2004 che Carlo Maria Martini, allora cardinale di Milano, ha voluto «lasciare alla sua città come luogo che desse attenzione agli “ultimi”».
«Non è un dormitorio»
«La sollecitazione dà continuamente intuizioni. È vitale, se affrontata bene». Parole di don Colmegna, sacerdote senza colletto, una vita passata al fianco dei più deboli che incontra nella periferia milanese fin dai primi anni Settanta, con l’Azione cattolica e poi, nominato nel ’93 dal cardinale Martini, a capo della Caritas Ambrosiana. «Chi fa da sé, fa per tre» è la filosofia da queste parti. Lo sanno bene le centinaia di persone che ogni anno passano da qui cercando una strada per entrare nella società.
Uomini a un piano, donne a un altro, le famiglie nella dependance alle spalle dell’edificio principale. Per far funzionare questa complessa cittadella della convivenza ci vogliono rigore e stimoli. L’incontro con don Colmegna e i suoi collaboratori avviene di fronte all’area attrezzata per i figli degli ospiti della Casa. La piscina di palline colorate, i tappeti, le poltroncine, i tavolinetti: nulla da invidiare ai baby-parking dell’Ikea.
«Agli ospiti – ci spiega Fiorenzo De Molli, spalla di don Virginio – si chiede di alzarsi alle 7, di fare colazione e lasciare la casa verso le 9. Sono costretti a uscire, li stimoliamo a costruirsi una vita». C’è chi va a lavorare e chi va a cercare lavoro. Alle 17 e 30 si riaprono le porte e gli ospiti possono tornare. Si fanno la doccia, poi c’è la messa e la sera ognuno fa quel che vuole. «Una cosa sacra sono le partite. Si fa teatro, e poi tre giorni di vacanza insieme in Toscana, si va in pullman. Siamo stati anche a Locri a sostenere la lotta contro la ‘Ndrangheta. Si fa la gita sulla neve, il picnic fuori porta. Insomma, come in una vera famiglia».
Al lavoro nella Casa, con contratti diversi, ci sono una quarantina di persone. Ad affiancarli, un centinaio di volontari che si occupano dell’organizzazione, ma danno anche una mano a fare le docce a chi non riesce da solo. Oppure gestiscono il centro d’ascolto che è uno dei modi per arrivare qui. Ma non l’unico, c’è anche il consiglio dell’amico oppure le parrocchie dell’hinterland milanese, o i servizi sociali, gli ospedali, i carabinieri, la polizia, i cappellani delle carceri.
«La nostra sfida per l’integrazione – spiega don Colmegna – sta proprio nel non trasformare la struttura in un dormitorio». Questo è un discrimine ben chiaro a tutti coloro che lavorano dentro la Casa della Carità e anche a tutti gli ospiti che qui arrivano. Con chi arriva ci si guarda negli occhi e si stipula un patto a tre: gli ospiti che arrivano, le istituzioni cittadine e la Casa che fa da tramite e da mediatore. Lo spirito, fin dall’inizio, è stato l’opposto dell’assistenza per l’assistenza.
L’integrazione passa attraverso il lavoro. Far da mangiare qui ha significato per delle persone creare un’impresa che si occupa di catering. Le pulizie vengono fatte da una cooperativa nata qui dentro. Si fanno dei corsi brevi di imprenditoria, per coloro che diventano muratori. Chi è qui dentro è spinto a fare lavori in regola, ma ciò significa guadagnare meno rispetto a quelli che lavorano in nero. E qui sta il difficile da far capire.
L’obiettivo è far «sloggiare» gli ospiti il prima possibile, ché significa una famiglia in più che dalla sopravvivenza è passata alla vita. «Ci accorgiamo – sottolinea De Molli – che per tante persone questa diventa la residenza affettiva. Io sto qui, faccio la mia esperienza, poi vado io. Se ho un casino, torno dalla “mamma”. E sono tanti che tornano a richiedere aiuto».
«Le persone di cui ci siamo occupati in passato – aggiunge don Virginio – hanno avuto la propria casa, si sono inserite nel mondo del lavoro». Ovviamente, non sempre tutto fila liscio. Mettiamo che un rom voglia fermarsi e trovare casa: se non ha reddito non ha diritto. E allora? Don Colmegna ha messo su una associazione di mediazione che aiuti a sciogliere proprio questi nodi. «Abbiamo raggiunto il risultato di 16 appartamenti, e il nostro obiettivo è uscire dalla situazione di emergenza, ecco perché avevamo sognato un villaggio solidale, che però fosse un co-housing sociale, che potesse concedere gusto all’abitare». Di nuovo, l’obiettivo non è la mera sopravvivenza, ma aiutare a costruire una vita che meriti di essere vissuta. Uomini e donne, bambini e vecchi, italiani e stranieri (in quattro anni di attività sono passate da queste parti più di settanta nazionalità diverse). All’inizio, si calcolavano in 6 mesi i tempi d’uscita dalla Casa, oggi, confessano soddisfatti in una media di 4 mesi si è fuori, con una prospettiva davanti.
Don Colmegna e i suoi collaboratori cercano di lavorare caso per caso, di umanizzare i percorsi di accoglienza e inserimento. «Ci sono state delle donne che erano state in carcere a Monza e al momento dell’indulto sono state mandate qui dal cappellano. Prima che contattassero la famiglia, abbiamo fatto vedere loro il Duomo e il Castello. Era assurdo che dall’estero conoscessero l’Italia e Milano solo attraverso il carcere». Ed è la normalità e l’assenza di retorica con cui si raccontano esperienze di questo gnere che più sorprende.
Per esempio, si dice: i rom non voglio lavorare e quindi non possono integrarsi. Sarà vero? «Sia come sia – sottolinea De Molli – se dicono di essere di via Triboniano non li prendono, perché hanno un’etichetta. Questa via è diventata lo snodo per chi arriva a Milano dall’estero». Via Triboniano è un campo nella zona nord-ovest di Milano, vicino al polo fiera, nei pressi dell’Expo. Ci abitano più di centoventi famiglie rom, tutti romeni, tranne cinquanta bosniaci. Quella zona era la vecchia pattumiera umana di Milano.
La «tolleranza zero» e i rom
«E oplà, ecco lo “sgombero” di via Bovisasca, sopra il pratone ex Montedison, di proprietà del Comune e in concessione a Milano Santa Giulia, il sottosuolo di amianto e arsenico, il suolo un immondezzaio che al confronto le vere discariche son le Maldive». Così scriveva il «Corriere della sera» il 20 marzo scorso, all’indomani dell’ultima operazione sul campo nomadi che «accoglieva» – si fa per dire – circa 800 rom. È l’ultimo episodio in ordine di tempo, della politica degli sgomberi a Milano che ha spinto il cardinale della diocesi milanese, Dionigi Tettamanzi, a una posizione molto dura: «La legalità è sacrosanta. Ma l’impressione è che qui si stia scendendo abbondantemente sotto i limiti stabiliti dai fondamentali diritti umani».
«Tolleranza zero», «Abbattere i campi rom» e così via. Con il successo della Lega al Nord e di Alemanno a Roma, l’identificazione di immigrazione e criminalità è tornata di nuovo sulle prime pagine. Don Colmegna ha ben presente la questione – più che l’emergenza – della paura dei cittadini. Non si nasconde dietro un dito. «La percezione dell’insicurezza non corrisponde all’insicurezza stessa però il problema è serio. Qualche volta è legato all’isteria del momento, ma la paura dei cittadini è reale e bisogna avere rispetto per chi si sente accerchiato: nemmeno io abiterei con tranquillità vicino a una favelas». Dopo ogni sgombero, prosegue, ci dovrebbe essere un progetto urbanistico che interviene a sviluppare l’area altrimenti non se viene mai fuori. A volte anche prima, come alla Bovisasca. «Quella era un’area che in primo luogo andava bonificata, un territorio pieno di veleni. La presenza del campo rom ha solo permesso di rimandare la questione». L’«emergenza» rom è anche nelle cifre. Il 52 per cento degli italiani non conosce il reale numero (più o meno 150mila) della popolazione rom e sinti in Italia e il 35 per cento la sovrastima. Il 50 per cento dei nostri connazionali crede che nessun rom e sinti sia italiano, al contrario la maggior parte lo sono. Il 92 per cento degli italiani crede che sfruttino i minori. Numeri che provengono da un sondaggio realizzato da Renato Mannheimer su un campione nazionale di duemila persone e presentato nello scorso gennaio nell’ambito della Conferenza europea sulla popolazione rom. Si tratta di dati citati da Carlo Berini in un articolo nel bel numero di marzo di «Communitas», il mensile diretto da Aldo Bonomi.
Morale? Noi tutti ne sappiamo poco di chi sono i rom e questo fa un po’ paura. Certo, i sociologi, come Bonomi, ci spiegano che il nostro paese è anziano e come tutti gli anziani ha la soglia della paura e dell’insicurezza un po’ più in basso. È vero, siamo attraversati da flussi globali e bisogna attrezzarsi a governarli questi flussi. Ma queste sono domande e le persone chiedono invece risposte. «Ciò che crea insicurezza – spiega don Virginio – è il fatto che si può anche protestare e urlare molto ma nulla cambia. Conosciamo storie di caseggiati nei quali si urla, si chiama la polizia, il giorno dopo si arresta qualcuno, ma dopo due mesi tutto è tornato come prima». E allora bisogna partire dal basso, come si fa alla Casa della Carità? «Noi ci proviamo a migliorare la situazione. Far venire gli anziani qui per far conoscere reciprocamente gli abitanti del quartiere storici e i nuovi arrivati. Questo fa abbassare il livello della paura e della diffidenza reciproca si restituisce sicurezza e si dà l’idea che il problema può essere governato».
Insomma, si tratta di riannodare i fili di una società dove si è persa la coesione tra gli individui, il mastice che la tiene in piedi. Don Colmegna si alza dal tavolo, si rimbocca le maniche – e non è una metafora – e si congeda, «una società frammentata – dice – è una società delle paure, in cui ciascuno si isola dall’altro. Si tratta di questioni molto grandi che i politici delegano e confinano nell’ordine pubblico. Noi dialoghiamo con la questura, con le forze dell’ordine ma non è questo l’unico modo per far fronte al disagio e all’emarginazione».
Wednesday, May 21, 2008
A proposito di rom e integrazione
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2 comments:
l’identificazione di immigrazione e criminalità..questo è il vero problema
La ringrazio per Blog intiresny
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